martedì 5 giugno 2012

Un pensiero all'Emilia Romagna

In Emilia-Romagna non sono nata, né ho trascorso la mia infanzia. I miei parenti non sono emiliani né tantomeno romagnoli. In questa zona, però, sono cresciuta e sono forse diventata chi sono ora: la ragazza latinoamericana se sono in Italia, e la donna europea se mi trovo a Buenos Aires. Mi sono anche innamorata da queste parti, ho fatto tanti amici, ho studiato, ho lavorato, ma ho avuto qualche delusione, come tutti poi. Sarebbe più fedele ai fatti se mi riferissi alla Romagna, quella terra magica che è ormai parte di me; tuttavia, le circostanze giuridiche, culturali e storiche vollero che l'Emilia e la Romagna fossero un'unica cosa. Perciò sono sorelle anche in questi momenti, anzi, lo sono ancora di più perché è nel bisogno che si vedono gli amici, i fratelli, le sorelle
So che un post in un blog non contribuisce di certo ad aiutare i terremotati di Finale Emilia o di Mirandola, ma ci tenevo a dedicare un pensiero per iscritto a quella regione che tanto mi ha dato, soprattutto perché mi ci trovo lontana e più di così non credo di poter fare.

Beh, forse una cosa posso farla, anzi, mi sento in dovere di fare: vi lascio dei link dove potete trovare tanti modi per aiutare le zone colpite.

Invece, in questo blog troverete un reportage e informazioni molto utili per dare una mano alle famiglie colpite dai terremoti dei giorni scorsi. 

Condivido con voi una poesia di Giovanni Pascoli dedicata alla sua cara Romagna che, anche se non è la zona in questione, mi piace e mi ricorda la terra della piadina e il sangiovese!

Romagna
a Severino

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra visïon di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese

cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,

e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridïano ozio dell’aie;

mentre il villano pone dalle spalle

gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ’l bue rumina nelle opache stalle
la sua laborïosa lupinella.

Da’ borghi sparsi le campane in tanto

si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate

sotto ombrello di trine una mimosa,
che fiorìa la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;

e s’abbracciava per lo sgretolato

muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.
Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via

con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allora allor falciati

de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli

ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettìo d’uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,

tutti tutti migrammo un giorno nero:
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura

tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,
Romagna solatìa, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

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