giovedì 21 giugno 2012

Il magico mondo dei libri, in crisi?

A detta degli esperti del settore, il mercato dei libri soffre da qualche anno le conseguenze dell'avvento degli e-book (letteralmente i "libri elettronici", quelli che si comprano su internet per poi essere letti sul computer o sul palmare). Se poi pensiamo anche all'attuale modello economico europeo, messo in ginocchio dalla crisi mondiale e smascherato nei suoi punti deboli, e quindi all'improvviso impoverimento dei gruppi familiari o alla conseguente tendenza al risparmio tra i consumatori, il magico mondo dei libri e le librerie sembrerebbe avere i giorni contati. Per fortuna, la magia ha sempre saputo trascendere i limiti della realtà, come in Francia, dove le librerie sono tante e la vendita di libri negli ultimi nove anni è aumentata di un 6.5 percento.
Secondo un articolo pubblicato oggi nel portale del The NewYork Times, mentre negli USA e in Gran Bretagna gran parte delle piccole librerie hanno dovuto chiudere i battenti per la crisi e la mancanza di clienti, in Francia la situazione sembra essere diversa: librerie di quartiere che fanno fronte alle grandi catene di bookstores e lettori poco avezzi a comprare libri su internet e tantomeno a leggerli su uno schermo. Tuttavia, il successo delle librerie francesi non è tutto dovuto ai lettori avidi di conoscenza e fedeli ai libri stampati; lo Stato francese ha svolto un ruolo assai importante negli ultimi decenni applicando misure protezionistiche sul mercato dei libri e concedendo prestiti a tasso zero a futuri librai. C'è da dire, infatti, che i prezzi dei libri in lingua francese sono fissi e non possono essere scontati più del 5 percento, così come il valore degli e-book, che viene fissato dalle case editrici e non può subire ulteriori sconti.
Il mondo dell'editoria sa anche essere buffo a volte: in Argentina, ad esempio, nel 2011 è stato registrato un incremento del 33 percento nella pubblicazione di libri, rispetto all'anno precedente. Eppure, è risaputo in questo paese (il mio paese!) che la società argentina mediamente non legge molto se non in spiaggia al mare. Quindi, come sarebbe? Ci sono più libri, ma meno lettori? O più libri, per gli assidui lettori? Forse, semplicemente dallo Stato si è cercato di aiutare le case editrici locali per favorire la produzione e preservare i posti di lavoro. Peccato, però, che di fronte a questo intervento statale, a quanto pare, non abbiano avuto successo le politiche educative mirate a stimolare la lettura nella comunità.

Ho voluto condividere con voi queste notizie perché sono una di quelle persone che crede firmemente nel libro come oggetto quasi salvifico, utile, necessario. Magico. Leggere un libro è un'avventura, sempre diversa da ogni altra passata o futura. Il libro è un viaggio, secondo me, lo apri e via, pronti a partire. Inizi a leggere senza sapere veramente mai cosa aspettarti; un'idea ce l'hai se hai dato un'occhiata alla sinopsi nel risvolto della copertina, ma quello che troverai scritto tra quelle pagine, lo scoprirai solo se arrivi fino alla fine, a quel punto che può lasciarti perplesso (ma come, è finito così?), amareggiato (eggià, la vita è così...), soddisfatto (ecco, proprio un bel libro), sorpreso (ma io lo sapevo!!!), e a volte perché no, deluso (ma dai, non l'avrei mai detto). 
Ciò che il libro non farà mai è lasciarti indifferente, ottenendo sempre una risposta da parte tua, perché l'ha cercata quella risposta, e se l'è guadagnata attraverso tutte quelle pagine che possono essere poche o molte. Perché oltre l'intrattenimento della trama, la veridicità del fatto narrato o la bellezza delle parole abilmente scelte, il libro è importante per noi, uomini e donne pensanti, in quanto stimolo piacevole che cerca, nutre e finalmentre trova quella reazione nel lettore.
Neruda_libro
Foto fatta da mio cugino Fabrizio
Io sostengo l'editoria, vuoi mettere un libro fatto di carta, leggermente ruvida al tatto?
Vuoi mettere l'odore dei libri nuovi? E di quelli vecchi? 
Ma per piacere!

mercoledì 13 giugno 2012

Oggi, Eugenio Montale


Eugenio Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896, il più piccolo dei sei figli di una famiglia medio-borghese. Egli trascorre parte della sua infanzia nella Riviera Ligure (Le Cinque Terre), dove la famiglia va in vacanza, ed è proprio questo paesaggio mediterraneo e arido lo stimolo ideale per svegliare la curiosità del giovane Montale. Sebbene si diploma in ragioneria, Eugenio Montale è un grande autodidatta, che coltiva i suoi interessi letterari e artistici frequentando le biblioteche della città e assistendo a lezioni di filosofia impartite dalla sorella Marianna. In questo periodo, scopre anche la passione per il canto, disciplina che studia con l'ex baritono Enrico Sivori e che manterrà viva per tutta la vita, senza mai però esibirsi in pubblico.
Montale_sigaretta_scrivereLe sue opere liriche sono caratterizzate da una profonda testimonianza delle inquietudini dell'uomo moderno, generate da quel mondo che lo incuriosisce ma al tempo stesso lo affligge. Montale riesce a cogliere quel senso di smarrimento derivato dalla frattura insanabile tra l'uomo e il mondo circostante; per fare ciò, il poeta utilizza un linguaggio fortemente simbolico: la natura e i suoi elementi in Ossi di seppia (1925), la donna-angelo in Le occasioni (1939).
Le altre sue raccolte poetiche sono La bufera e altro (1956) e Satura (1971), in memoria della moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963. Eugenio Montale, Premio Nobel della Letteratura nel 1975, muore a Milano il 12 settembre 1981.

Volevo condividere oggi con voi alcuni dei suoi componimenti più belli secondo me. Buona lettura!

Ossi di seppia - Meriggi e ombre
III - Casa sul mare
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.

Ossi di seppia
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s' intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com' é tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Portami il girasole
Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
é dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

Spesso il mal di vivere
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Forse un mattino andando
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi vedró compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andró zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Le occasioni
Non recidere, forbice, quel volto
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre
Un freddo cala…
duro il colpo svetta
e l’acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala
nella prima balletta di novembre.

II - Mottetti
L’anima che dispensa
furlana e rigodone ad ogni nuova
stagione della strada, s’alimenta
della chiusa passione, la ritrova
a ogni angolo piú intensa.

La tua voce è quest’anima diffusa.
Su fili, su ali, al vento, a caso, col
favore della musa o d’un ordegno,
ritorna lieta o triste. Parlo d’altro,
ad altri che t’ignora e il suo disegno
è là che insiste do re la sol sol...

Xenia I
Avevamo studiato
Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell'alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello. 

Xenia II - Satura
Ho sceso dandoti il braccio
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perchè con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perchè sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

sabato 9 giugno 2012

"E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio". Il ritorno negato di 'Ntoni Malavoglia


Oggi volevo scrivere sulla mia vita e sulla letteratura; anzi, volevo trovare un testo che mi fosse rimasto impresso nella memoria e perché no, nel cuore, e che in qualche modo fosse collegato alla mia vita o fosse stato parte delle mie riflessioni notturne. Ecco che cercando tra le mie cartelle del computer ho visto il file Tesina di Letteratura Italiana, scritta da me due anni fa. 
Scelsi come argomento le inquietudini esistenziali di 'Ntoni Malavoglia, facendo un particolare riferimento al motivo della soglia, molto ricorrente nel romanzo di Giovanni Verga. Devo ammettere di essere stata molto soddisfatta allora, non tanto perché fosse piaciuta al professore, bensì perché mi piacque assai il tema e mi diede la possibilità di rileggere questo capolavoro verghiano sotto un'altra luce, dopo esperienze di vita simili a quelle del giovane Malavoglia (solo per il fatto di considerarmi una specie di "esule", non per le tragedie familiari o aver accoltellato Don Michele, sia chiaro!). A voi, qualche passaggio del mio elaborato [ho tralasciato le citazioni a pié di pagina per motivi estetici; naturalmente, le parti tra virgolette non mi appartengono].

Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre 1840, da padre discendente dal ramo cadetto di una famiglia nobile e da madre borghese. Dopo una serie di romanzi a sfondo patriottico, comincia a scrivere dei romanzi brevi, le cosiddette novelle, tra cui Fantasticheria (1879) e Rosso Malpelo (1878). Esse diventano una specie di laboratorio, dove il Verga si allena e prepara i ferri del mestiere che gli consentiranno poi di delineare il ciclo de I Vinti, una raccolta che prevedeva cinque romanzi, di cui però soltanto due furono portati a compimento. Secondo Verga (1881), infatti, “I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso, sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno con le stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù". 
L’ultima parte della novella [Fantasticheria] enuncia ciò che può essere considerato la linea guida de I Malavoglia, ovvero l’ideale dell’ostrica, che esalta l’attaccamento degli umili al proprio ambiente e la “rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti” (Verga, 1879). Ma il concetto forse più interessante di questo ideale è quello di chi, staccandosi dallo scoglio “per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo”, è condannato ad una vita di fallimento e di sofferenza. Infatti, secondo questo principio, chi lascia il nido per immergersi nella fiumana del progresso e della storia non può che rimanerne stravolto, e ogni speranza di miglioramento gli sarà negata. Più difficile sarà, invece, la sorte della stessa persona se decidesse di ritornare dai suoi dopo aver varcato i confini del suo villaggio, poiché si renderà conto che, di fronte all’impossibilità di reintegrarsi alla vita del paese, non gli resta che ripartire, questa volta però, per non tornare più. Ecco cosa succede a ‘Ntoni Malavoglia.
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico. Allora 'Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo.
Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch'ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d'imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l'alba, come l'aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c'era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. - Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta, pensò 'Ntoni, e si accoccolerà sull'uscio a cominciare la sua giornata anche lui. - Tornò a guardare il mare, che s'era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: - Ora è tempo d'andarmene, perché fra poco comincierà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.

[...]
Grazie a questi usi verbali, vediamo che ad Aci Trezza il tempo è circolare, e come in natura, i cambiamenti sono apparenti e ciclici, poiché alla fine tutto rimane immutabile; persino le azioni umane sembrano ritornare eternamente nella vita del paese. ‘Ntoni invece, in quanto esule o, perché no, futuro emigrante italiano del XIX secolo, appartiene al tempo lineare della storia e, quindi, non può più fare parte di quel mondo abitudinario che è Aci Trezza. Da qui la contraddizione simbolica della chiusa del romanzo: l’eterno ritorno è concesso soltanto a chi, il suo paese, non l’ha mai lasciato.

martedì 5 giugno 2012

Un pensiero all'Emilia Romagna

In Emilia-Romagna non sono nata, né ho trascorso la mia infanzia. I miei parenti non sono emiliani né tantomeno romagnoli. In questa zona, però, sono cresciuta e sono forse diventata chi sono ora: la ragazza latinoamericana se sono in Italia, e la donna europea se mi trovo a Buenos Aires. Mi sono anche innamorata da queste parti, ho fatto tanti amici, ho studiato, ho lavorato, ma ho avuto qualche delusione, come tutti poi. Sarebbe più fedele ai fatti se mi riferissi alla Romagna, quella terra magica che è ormai parte di me; tuttavia, le circostanze giuridiche, culturali e storiche vollero che l'Emilia e la Romagna fossero un'unica cosa. Perciò sono sorelle anche in questi momenti, anzi, lo sono ancora di più perché è nel bisogno che si vedono gli amici, i fratelli, le sorelle
So che un post in un blog non contribuisce di certo ad aiutare i terremotati di Finale Emilia o di Mirandola, ma ci tenevo a dedicare un pensiero per iscritto a quella regione che tanto mi ha dato, soprattutto perché mi ci trovo lontana e più di così non credo di poter fare.

Beh, forse una cosa posso farla, anzi, mi sento in dovere di fare: vi lascio dei link dove potete trovare tanti modi per aiutare le zone colpite.

Invece, in questo blog troverete un reportage e informazioni molto utili per dare una mano alle famiglie colpite dai terremoti dei giorni scorsi. 

Condivido con voi una poesia di Giovanni Pascoli dedicata alla sua cara Romagna che, anche se non è la zona in questione, mi piace e mi ricorda la terra della piadina e il sangiovese!

Romagna
a Severino

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra visïon di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese

cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,

e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridïano ozio dell’aie;

mentre il villano pone dalle spalle

gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ’l bue rumina nelle opache stalle
la sua laborïosa lupinella.

Da’ borghi sparsi le campane in tanto

si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate

sotto ombrello di trine una mimosa,
che fiorìa la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;

e s’abbracciava per lo sgretolato

muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.
Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via

con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allora allor falciati

de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli

ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettìo d’uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,

tutti tutti migrammo un giorno nero:
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura

tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,
Romagna solatìa, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.