mercoledì 13 giugno 2012

Oggi, Eugenio Montale


Eugenio Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896, il più piccolo dei sei figli di una famiglia medio-borghese. Egli trascorre parte della sua infanzia nella Riviera Ligure (Le Cinque Terre), dove la famiglia va in vacanza, ed è proprio questo paesaggio mediterraneo e arido lo stimolo ideale per svegliare la curiosità del giovane Montale. Sebbene si diploma in ragioneria, Eugenio Montale è un grande autodidatta, che coltiva i suoi interessi letterari e artistici frequentando le biblioteche della città e assistendo a lezioni di filosofia impartite dalla sorella Marianna. In questo periodo, scopre anche la passione per il canto, disciplina che studia con l'ex baritono Enrico Sivori e che manterrà viva per tutta la vita, senza mai però esibirsi in pubblico.
Montale_sigaretta_scrivereLe sue opere liriche sono caratterizzate da una profonda testimonianza delle inquietudini dell'uomo moderno, generate da quel mondo che lo incuriosisce ma al tempo stesso lo affligge. Montale riesce a cogliere quel senso di smarrimento derivato dalla frattura insanabile tra l'uomo e il mondo circostante; per fare ciò, il poeta utilizza un linguaggio fortemente simbolico: la natura e i suoi elementi in Ossi di seppia (1925), la donna-angelo in Le occasioni (1939).
Le altre sue raccolte poetiche sono La bufera e altro (1956) e Satura (1971), in memoria della moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963. Eugenio Montale, Premio Nobel della Letteratura nel 1975, muore a Milano il 12 settembre 1981.

Volevo condividere oggi con voi alcuni dei suoi componimenti più belli secondo me. Buona lettura!

Ossi di seppia - Meriggi e ombre
III - Casa sul mare
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.

Ossi di seppia
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s' intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com' é tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Portami il girasole
Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
é dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

Spesso il mal di vivere
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Forse un mattino andando
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi vedró compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andró zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Le occasioni
Non recidere, forbice, quel volto
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre
Un freddo cala…
duro il colpo svetta
e l’acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala
nella prima balletta di novembre.

II - Mottetti
L’anima che dispensa
furlana e rigodone ad ogni nuova
stagione della strada, s’alimenta
della chiusa passione, la ritrova
a ogni angolo piú intensa.

La tua voce è quest’anima diffusa.
Su fili, su ali, al vento, a caso, col
favore della musa o d’un ordegno,
ritorna lieta o triste. Parlo d’altro,
ad altri che t’ignora e il suo disegno
è là che insiste do re la sol sol...

Xenia I
Avevamo studiato
Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell'alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello. 

Xenia II - Satura
Ho sceso dandoti il braccio
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perchè con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perchè sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Nessun commento:

Posta un commento